Se Don Draper e Harvey Specter entrassero in una stanza, chi vincerebbe?
Sotto un cappotto di perfezione c’è sempre una ferita nascosta.
Una cicatrice invisibile che non si vede nelle foto patinate, nelle frasi sicure, nei sorrisi calibrati.
È quella che ti rende umano. È quella che ti rende complesso. È quella che ti rende chi sei.
Non devi necessariamente mostrarla, raccontarla o rivelarla. Soprattutto se farlo ti mette a disagio.
Ma è parte della tua identità. E inevitabilmente si rifletterà in ciò che sei, in come agisci e in come comunichi.
Ed è qui che entra in gioco il branding. Che è fatto di scelte. Don Draper e Harvey Specter lo raccontano molto bene.
E sono l’esempio perfetto di brand che restano impressi.
Questo è l’episodio 2 di 4.
Un brand, personale o aziendale, nasce da un insieme di decisioni: cosa mettere in luce, cosa lasciare in ombra, cosa far solo intuire.
Don Draper e Harvey Specter lo incarnano alla perfezione.
Personaggi costruiti per essere magnetici, nati per restare impressi nella memoria di chi li guarda, ma con un punto in comune: dietro l’immagine perfetta si nasconde un’anima ferita. Dei lati oscuri, profondi, importanti e personali che nei loro mondi narrativi non sono mai la storia principale. Sono elementi che emergono in filigrana, senza togliere forza al carisma.
Don Draper: il genio tormentato
In Mad Men, Don Draper è il pubblicitario che tutti vorrebbero nel proprio team: creativo, brillante, magnetico. Impeccabile nei completi su misura, affascinante in ogni gesto, enigmatico in ogni parola.
Ma dietro la facciata scintillante c’è un uomo orfano, con una crisi esistenziale cronica, che costruisce brand leggendari senza avere una vera identità per sé stesso.
Il suo carisma è alimentato proprio da ciò che non dice, dal non mostrarsi mai del tutto.

Harvey Specter: l’uomo che non perde mai
In Suits, Harvey Specter è l’avvocato che domina ogni stanza in cui entra.
Brillante, elegante, irresistibile. È l’uomo che sembra avere sempre la mossa giusta.
Eppure, dietro la sicurezza assoluta, si nasconde un figlio trascurato, affamato di approvazione ed emotivamente bloccato.
Il suo paradosso più grande è avere tutte le risposte per gli altri, ma non per sé stesso.

Molti, osservando personaggi come Draper o Specter, si fanno l’idea che costruire un personal brand significhi essere impeccabili, infallibili e distanti. Come se l’unico modo per generare autorevolezza fosse rimuovere ogni fragilità.
Ma costruire un brand non significa erigere un muro di perfezione.
È scegliere consapevolmente cosa mostrare, come raccontarlo e a quale scopo. È decidere quali sfumature lasciar intravedere per creare connessione senza rinunciare al mistero e alla privacy della propria sfera privata.
Le ferite non sono un difetto da eliminare ma un elemento di complessità. Non devono per forza essere esposte, ma possono essere integrate nella narrazione in modo sottile:
- Un tratto di carattere forgiato da un’esperienza passata.
- Una determinazione che nasce da una mancanza.
- Una scelta di valori che affonda le radici in un vissuto difficile.
In questo Draper e Specter hanno molto in comune: la loro forza è alimentata da ciò che nascondono.
Il potere della scelta narrativa
Don e Harvey sono due esempi magistrali di storytelling calibrato:
- Coerenza in ogni dettaglio, dal tono di voce alla postura.
- Fragilità presenti, ma mai protagoniste.
- Carisma che nasce tanto da ciò che si vede quanto da ciò che si intuisce.
Il personal branding non è un esercizio di perfezione, è una strategia di racconto: scegliere consapevolmente quali aspetti della propria identità portare in primo piano, quali lasciare sullo sfondo e quali far intuire.
Se davvero entrassero insieme in una stanza probabilmente non ci sarebbe un vero vincitore, perché nella partita del branding vince chi sa scegliere cosa far vedere e cosa lasciare nell’ombra.
Ma anche se entrambi sono costruiti per essere irresistibili, uno dei due crolla, dimostrando palesemente che le maschere prima o poi cadono.

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